In un arco di tempo lungo quarant’anni, a partire dalla fine del 1970 ai primi 2000, accadono un numero considerevole di cose.
Ad esempio cambiano i formati di registrazione dell’immagine elettronica analogica e un uomo può spostarsi tra innumerevoli, anche se finiti, luoghi e attraversare migliaia di situazioni, incontrare centinaia e centinaia e centinaia di volti, condurre le più svariate conversazioni nei momenti più insoliti della giornata o della notte. Può ritrovarsi a cena, o a pranzo, o colazione, tra le rive del Gange o nel bar freddo di una Berlino formicolante di registi, critici e occhi curiosi. Crescono i figli, cambiano gli amori e i governi, escono una quantità spropositata di nuovi film che si possono vedere solitamente negli stessi festival, come a Cannes, o a Venezia, o nelle sale, della provincia o del centro. Capita pure che muoiano gli amici, che se ne perdano altri, che se ne trovino di nuovi.
Avviene la vita, insomma, che a raccontarsi è, quasi, la vita di tutti.
Per l’uomo con la macchina da presa però è diverso poiché dopo questo incedere senza sosta del tempo ha dalla sua parte una enorme quantità di registrazioni pronte a riavvolgersi per dire di nuovo qualcosa di nuovo. Quell’uomo di questo film è Enrico Ghezzi, il più geniale e influente autore della televisione italiana, il più pittore e paroliere dei critici cinematografici, l’uomo che in un pomeriggio di una Roma quieta insorse. Si chiamerà Gli ultimi giorni dell’umanità, questo film.
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La vita è l’anagramma dei nostri desideri
Altre reminiscenze e resipiscenze, cavalloni da tuffi lontani, wirlwind, dustball, tumbleweed deserto di mille colori, dune mobili, due palle da bowling, riemergono pronte, tempeste di sabbia sono pronte ad altre sovrimpressioni, l’Atalante si vede arenarsi. Gli occhi bollenti sopravvivono solo nell’arsura di (super) eroi capaci di farsi sabbia di fare e di disporsi in figure cedue (l’uomo e la donna caduti sulla terra dicono di aver praticato almeno diciassette volte in dodici giorni lo strano rituale abrasivo di compenetrazione dei corpi).
Una sorta di non-manifesto,
qualcosa di breve e smisurato
appoggiato su una mancanza di lingua.
Ecco. Il primo dei guasti possibili: Ri-prendere il mio (?) archivio di non-riprese, fonte esplicita di non somiglianza e distanza, illusione di una forma scelta, di fare una cosa. Dondolio.
L’archiv-io, mia (?) personale archeologia melò, è il punto più evidente del miraggio narcisistico (singolare e plurale), dove si divorano osservati e osservatori. Del resto l’archivio (anche nella forma egotista dell’anarchivio) alla fine si re-mosaicizza automaticamente, il suo motore è una macchina, set che può accogliere e produrre da solo.
Ecco: sto soggiacendo alle innumerevoli deformazioni demarcazioni rilocazioni e altri sor-voli aderendo a questo entusiasmo per il progetto – un angelo passò, portando a congiura istantanea e incompleta. Sovra-impressione di molteplici sovra-impressioni.
La distanza immensa che un sorriso tra il visibile e il non visibile basta a risuscitare (guardo dietro cortine tendaggi digitali gesti scritture degli amici compagni (amicompagni) con le ombre dei giocatori: the most dangerous game: ancora: aperti a tutte le transustanziazioni possibili; a scoprire la mutazione primaria tra se e se, rimasta fuori dall’ultimo crivello – – – su irene! uno sforzo, dimmi a cosa assomiglia la macchia che hai di fronte a cosa ti fa pensare? All’immagine dell’europa profonda? A un western di fritz lang? A un bambino che piange e se ne va? A Elena e gli Uomini di renoir? A uno dei settimi sigilli? Al più grande regista esistito maxophuls? A illibatezza? Alla ricotta? Al sipario strappato di hitchcock? A gertrud? Ai sacrificati di bataan? A vivre sa vie? A dietro lo specchio di ray? A ozu (Ohayo) con i ragazzini che scioperano per vedere la tv?)
è mezzogiorno …
è mezzogiorno
non è passato
il cinema è passato
breve istante della morte
il cinema è ancora li
solo campane
ancora e sempre debord dottore in nulla
e la gloria invisibile di un trombettiere anonimo del settimo cavalleggeri
Qual è il tuo nome?
Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti.
C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. E lo scongiurarono: Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi. Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare.
(Marco 5, 1-20)
Confesso l’evidenza di un non-metodo anche se l’accumulazione anarchica si forma in un surplace e in un rilancio dove la forma è forma di sé stessa. A questo punto (ci si) trova nello Spazio, tra bagliori infiniti e eternità inafferabili (esemplare il film di jack arnold The Incredible Shrinking Man); e esemplare e sempre decisiva l’odissea kubrickiana. Sembra svanire la durata stessa del cinema, un punto può fare in un’istante il giro di mille mondi e ritrovarsi(ci) Qui e dalle tasche dell’uomo digitale possono uscire tutti i film pensabili di una mnemosine warburghiana e già warholiana.
(Non) è un film. Si considera come la tessitura di una distanza interna. Non si tratta di scegliere, le scritture dondolandosi digradano. Le vibrazioni si incrociano disattivandosi. Solo immagini dei disastri in arrivo e di quelli sempre più piccoli dell’immagine che li trasporta. Archivio che si cancella annullandosi man mano che la Regione Centrale si condensa.
(Ecco che) spiegandosi da sole le grandezze e piccolezze eccedenti eccessive minimalistiche mi trovo di fronte alle conversazioni e a altri filmati e “viaggi” dove l’autonomia di fuori orario, incontri ecc.
Ecco 5 sempre così uno filma col video un viaggio olimpico tra roma bangkok sydney e ritorno evito di fare liste che pure mi gratificano assai questa smisuratezza minimale o le 20 ore girate al g8 con una mortadella presa a calci in mezzo alla strada dai black bloc non attonito ma certo un po’ turbato mi riaccorgo quanto il rullo compressore si appalesa nel gridarmi è tuo! È tuo! È mio! (un formaggino) tutto il mondo sembra trovarsi Lì e il mondo più che mai appare fatto e pronto mi chiede per un film almeno 15 ore e tutto il mondo diventa una sindrome di varanasi dove tutti si spogliano dei ruoli e gesti che non siano almeno 10 ore non stop ci ritorniamo ci vediamo come quello che sta avvenendo in questo momento, sui nostri set, si può dire che oltre la dialettica e il gioco tra set e sopralluogo tutte cose interessanti specie quando non interessano a nessuno mi affretto – le rushes non sono forse più intense del film? – e vi abbraccio aspetto che il mondo se ce n’è uno, si spalanchi di fronte a me anche se non fosse vero (o se fosse troppo vero)
e le ore ore di repertorio found footage immagini come cose trovate piramidi incluse o forcluse dicono solo del loro provenire come frammenti infinitamente remoti.
– No David: non farlo. David non farlo
David ? David David David
Infine l’istante (fotogrammi invertiti nulla c’è tempo asservito contorto dolce) volo sorvolo. Archeologia finita: detrito detriti: le forme dell’ARIA. ON NE SAURAIT PENSER À RIEN. Al volo attraversate.
il resto è silenzio(ooooooooooooooooooo)
egh
25 agosto 2019
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Lo storico formalizza, mette in ordine date e conseguenze e fornisce una lettura scrivendo. Produce scarto e margine poiché la sua cornice è sovente quella grande de La Storia.
Tuttavia prima del suo intervento le vicende umane non sono che attraversamenti nello spazio e nel tempo di individui in relazione. L’oralità, dei tempi antichi e silenziosi, del suono naturale, ha creato i primi poemi immortali. Molti anni dopo, dopo innumerevoli, inenarrabili, incalcolabili altre vicende umane, la passione ossessionata di due fratelli, prossimi a decine di altri cercatori d’ingranaggi, in una tensione che univa il globo invisibilmente, congegnò un’invenzione che dissero, alla sua nascita, senza futuro. Erano i Lumière ormeggianti al cinematografo. Ancora un salto a gambe divaricate del gigante Fantasia, sopra la testa di capovolgimenti, pianti, amori, scoperte, miserie e glorie, lentissimi e costanti movimenti tettonici, ed ecco che l’immagine si fa per la prima volta elettronica.
Lo storico non lo sa ancora, ma il dispositivo della sua grande cornice sta per essere preso definitivamente d’assalto da liberi scrittori in proprio della loro vita.
È nata Aura!
Quale sarà la prima cassetta? La più smunta, si potrebbe pensare. Quella che riporta, tra le tante senza etichetta, la data più lontana o, forse, quella in cui delle signore eleganti con cappello portano in braccio bambine per una passeggiata pomeridiana sul litorale della casa delle vacanze. Ma le bambine chi sono? È Martina Ghezzi. O Aura Ghezzi? Fosse la prima saremmo nel 1981, fosse Aura non potrebbe che essere sette anni dopo, almeno. Le rivedremo però numerose altre volte in un arco di tempo che dal balbettio delle prime parole passa per i clamori degli adolescenti in età di liceo e poi per le piazze di Genova 2001. Certamente è il 1989 quando al centro del monumentale parlamento di cartone rosso migliaia di delegati del partito comunista ascoltano ora questo ora quell’altro intervento, mentre in sala stampa, tra inclementi squittii di telescriventi, fax e telefoni, dirigenti Rai come Angelo Guglielmi e Sandro Curzi, insieme a giovanissimi Mentana, commentano sorridenti tra televisori che trasmettono «Schegge» in palinsesto sulla terza rete. Senza soluzione di continuità lo stesso nastro si muove tra i corridoi di Viale Mazzini. Un ufficio taciturno colmo di pile di VHS e U-matic, riviste, maschere, cataloghi, c’è persino un cristo ologramma a parete sul quale l’obiettivo si sofferma e gioca… Ma squilla il telefono, chi filma preme un bottone lampeggiante sul grosso apparecchio aziendale e risponde: Arrivo. Stop. Un motoscafo percorre a mare aperto una direttrice che punta dritta a un isolotto. È Lisca Bianca, sull’arcipelago delle Eolie in Sicilia, anzi no, pardon, è Michelangelo Antonioni, o meglio è un inseguimento. Così che anche l’immagine apparentemente più comune, quasi turistica, il blu del mare in una pasta densa poco più di quella del cielo, quella pasta delle cassette a nastro, diventa immediatamente un reticolo colmo di sovraimpressioni e cinematografie. Come quando un giovanissimo Mario Martone si presenta con una rosa bianca al compleanno della piccola Martina a casa di Nennella ed Enrico. La stessa casa in cui qualche anno dopo proprio Martina suonerà al pianoforte davanti a un pubblico di amiche. Mi ha intenerito dice Enrico, rivedendola. E ri-vedere è il nocciolo duro di questa cosa, commenteremo di lì a poco. Quasi una dichiarazione programmatica la cui eco si propaga in trent’anni di ricerche, pratiche e conversazioni. Dopotutto basta fare un salto, è sempre un salto, uno sgancio, epigenesi di una bolla in un bollire, la cassetta si fa più piccola, le testine adesso registrano, sempre su nastro, stringhe di algoritmi digitali, e dall’altra parte dell’obiettivo il filosofo Emanuele Severino, in un dialogare su origine e fine, sopraggiungere degli eterni, spirito di conservazione, volontà di potenza e After Life, ascolta il succo di quel nocciolo dallo stesso Ghezzi: Non si pensa adeguatamente la frattura vera che porta il cinema nella storia, quella che siamo abituati a pensare come storia dell’umanità o del mondo, il cinema è il primo momento in cui il mondo si rivede. Poi sappiamo che è finto, che è un trucco, che sono fotogrammi singoli, ma mentre la fotografia è un istante ghiacciato, col cinema rivediamo un cavallo, il mondo si rivede e questo di per sé è un avverarsi che non si pensa, ma è un pensare… È un piccolo sistema, meccanico, banale, semplice, corruttibile, però è sufficiente a produrre un rivedersi del mondo che di per sé è immediatamente nietzschiano, circolare. Che tutto ciò accada, avvenga, emerga, durante lo sbobinare di centinaia di ore di cassette il cui destino di necessità adesso solletica una forma, non è solo singolare, è pure avvincente. Così un elicottero si alza in volo, una ricognizione aerea torna sul Mediterraneo, c’è anche Ciro Giorgini con una handycam, c’è Helene, c’è il pilota e rivedendo attendiamo trepidanti davanti al monitor quel momento in cui il pilota libera la cloche per scherzo, l’elicottero per un istante si fa corpo morto nel vuoto e la paura coglie i presenti. Ma è un ricordo di Enrico che in archivio è presente soltanto con un ooooohhhhhhhhhh senza che l’immagine riesca davvero a precipitare. Ricordo di una sensazione che è stato per un momento il finale migliore per questo film, un cadere nel fuoco. Ma la sconfinata occasione di un archivio ha in sé il moto degli arti di un volatile, una costante definizione di apertura, così sul monitor accanto, una luce calda, rossa, a tratti hard, incastona Michael Cimino in sembianze quasi femminili all’interno di una composizione di frutta e fiori, segnata sul bordo dell’inquadratura da una brocca di vino dietro la quale si nasconde Alberto Barbera, fautore dell’incontro in un ristorante di Torino, in cui il convitato di pietra, la videocamera sulla tavola, diventa infine oggetto di animata discussione. Cut. Cut. Cut. Tra le decine di autoriflessi parlanti, in camere d’albergo sempre rinnovate, Enrico racconta di quell’attitudine di Amir Naderi a tagliare, foss’anche una conversazione, con il verso cinematografico: Cut! Così, lungo lo scorrere di un nastro, il rapidissimo apparire del grande sorriso, a valle di una enorme fronte, del regista iraniano, pare tenere precisamente fede al racconto. Siamo a Venezia, di lì a poco Marco Melani inizierà a filmare sui tavoli esterni dell’Hotel des Bains una lunga chiacchierata con Philippe Garrel. Venezia è un luogo topico, quasi una costante. Ciao Quentin!, si sente gridare mentre la camera si avvicina ad un approdo – e dalla gondola a motore esce fuori Tarantino che pollice in su, all’americana, e mani festanti, ricambia il saluto. Si fa sera, le acque nere della laguna sono schiarite da una delle lune colme registrate nel tempo. Il vaporetto ferma all’ingresso di un hotel. La cena De Oliveira?. In terrazzo. Per raggiungerlo si passa attraverso un lungo corridoio adornato da quadri che ritraggono la Serenissima in modo ombroso. D’un tratto un piccione invade la scena e la camera inizia a seguirlo tra colonnati e saloni dell’hotel. È magnifico, dice Enrico. Ti aggiungi a noi?, fa un’altra voce. È Paulo Branco, che come un cicerone dai larghi baffi e i modi cortesi rivedremo in altre cene eleganti al lido. Come quella in cui Catherine Deneuve fulmina, di mestiere, con uno sguardo, l’obiettivo che la filma, e allora la camera si sposta, traversando tavoli, celebrità e mostri per arrivare a incontrare John Malkovich con il quale si imbastisce in fretta una conversazione su Tonino De Bernardi. Lo abbiamo già visto De Bernardi, manovrava una cinepresa dirigendo un clarinettista e le sorelle Bonaiuto sul set di «Piccoli orrori» a casa Ghezzi, un momento che ci regala forse il più bel primo piano tra centinaia di ore, quello di Silvia Bonaiuto, Nennella. Frattanto in Sala Grande, la speaker della 63esima Mostra del cinema di Venezia annuncia in concorso l’ultimo film di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, ma loro non ci sono, per posizione, e gli applausi vanno, in uno scrosciante piano sequenza, agli attori di «Quei loro incontri». Passano rapidi, col suono plastico e stridulo dell’avanzamento veloce del nastro in moviola le scene, le situazioni, i personaggi, i momenti, i luoghi: Tarr Béla, Wenders Wim, Papo Paolo, Trento, Latisana, Berlino, Parigi, Bergamo, Olmi Ermanno, Pozzi Moana, Emmer Luciano, Schifano Mario, Sydney, Bangkok, Taormina, Cannes.
Pausa.
Adelchi Ghezzi appena nato, in braccio alla madre, in un notturno sibilato, ascolta John Coltrane. Forward rapido, again. Bertolucci Bernardo, Tyler Liv, Houellebecq Michel, Milano, Villa Simius, Bellaria, Torino, Derrida Jacques, Žižek Slavoj, Pitt Michael, Green Eva, Garrel Louis, Londra, Bruxelles, Carpenter John, Argento Dario, Bressane Julio, Roma, Genova, Napoli, Ferrara Abel.
Play.
Si fermano sospesi, su di una funivia, penzolanti sui crateri inattivi dell’Etna. Lo zolfo giallo stratificato tra lave nere fa da sfondo ad Aura in mezzo al cielo che imbronza la cabina: Il mio babbo pensa solo alla sua camera dice. E viene da pensare a quanto si legge in «Paura e Desiderio»: L’ultima volta che vedremo L’Atalante di Jean Vigo forse ci renderemo conto che è l’ultima, un attimo prima di morire, ma ormai avremo il sospetto che la vita come il film/nastro si riavvolgerà e svolgerà ancora […]. Se il cinema, anche in queste piccole «cassette», non sia già il futuro/passato dell’uomo stesso e del mondo. Se il superamento della «cosa» da filmare, nell’immagine sintetica, non sintetizzi il non-luogo e il non-tempo, in cui vive l’immagine. Se la mutazione di essa non sia proprio quella «cosa» anche virtuale che ci affascina e ci spinge a guardarla, a «sentirci» mentre la guardiamo, e che «resta» fin dall’inizio, e alla fine anche nella copia video più invisibile e sgranata e squartata. Forse, di fronte a questo (poter) «esserci già», aveva ragione meno di cent’anni fa Lumière a definire il cinema un’invenzione senza futuro.
Franco Battiato, nel suo studio siciliano, con in testa un fez porpora e l’entusiasmo del fanciullo alle prese col giocattolo nuovo, intona, a chitarra elettrica spianata: Soli si muore, senza l’amore. Soli si muore, senza l’amore.
Ecco che si sentono farsi canto Gli Ultimi Giorni dell’Umanità.
Alessandro Gagliardo
Roma, 25 marzo 2019
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Il lavoro è quello dell’esploratore. La regola: non formalizzare la curiosità.
È utile tenere in considerazione la doppia valenza della manovra, sempre costante oramai. Si sta facendo un film, ma si sta facendo, allo stesso momento, un archivio. Il primo è un pretesto per il secondo. Non ci sono dunque alcune cose più utili che altre. Gli sguardi, molteplici e diversamente ossessionati o sensibili, catturano una occorrenza e descrivendola la valorizzano, così facendo la fanno emergere, emergendo vive ancora una volta, ha più possibilità di altre di rientrare nel circolo di altri sguardi attraverso la parola scritta, ha la chance di essere raccontata e raccontare ancora.
Tenuti fermi questi punti, gli approcci, credo, possano essere tre.
- Riconoscimento
- Estrazione
- Trascrizione
Il riconoscimento permette all’immagine di essere individuata attraverso una descrizione. Sia essa anedottica, visiva, discorsiva, di suggestione, dubbiosa (pone domande al file e le lascia aperte), può essere un ricordo, non importa. Un file è muto sin quando non interviene il «ho visto questo». La sua funzione è più generica e simile a una descrizione generale del contenuto nella sua interezza.
L’estrazione si addentra, valorizza singole parti, le nota perché hanno fatto scattare una qualsiasi molla. Può essere l’intensità di uno sguardo, la tenerezza di una situazione, la musica di sottofondo, un nome e un cognome, il rosa così rosa sotto il sole di un gelato alla fragola sul marciapiede, uno schiaffo alla camera che fa una scia e un baluginio di forme e colori, un drop, una panoramica dal finestrino.
La trascrizione è gesto nobile. Trasforma la parola in testo scritto. Può essere parziale o completa. Può tradurre una conferenza o una conversazione, può annotare una battuta.
Questi tre macro movimenti, per crasi: valorizzazione, mettono in moto una macchina di senso, sempre incompleta, destinata comunque ad essere frammento in corsa verso la sparizione. L’unica occasione che il moto le dà è di sopravvivere, forse, una volta di più.
(il suo medium è il tempo)
Unica suggestione comprovata dall’esperienza: non rimandare mai il riconoscimento appena avvenuto. Quell’accadimento, nel magma, è raro, segnarlo immediatamente lo fa diventare.
Nulla di più.
Roma, 25 Marzo 2019
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Il montaggio è un’operazione meccanica, e il più è dato, secondo me, dall’assumere questa meccanicità del montaggio. «Assumere la meccanicità» che cosa vuol dire? Ci sono state molte teorie del montaggio nella storia del cinema, e soprattutto tra i sovietici. Prima Griffith in America, e poi, da una parte Ėjzenštejn, e soprattutto dall’altra Vertov. Noi siamo vertoviani (L’uomo con la macchina da presa): il montaggio è stacco, il montaggio è passaggio da una sezione spaziale a un’altra, e il non visibile del montaggio è tutto il resto; è come se ogni alternarsi di piani, di campi, d’inquadrature aprisse subito la possibilità di milioni di altri: basta uno stacco, e questo è abbastanza spiazzante. Il momento tecnico, quando stai montando, è quello dell’abbandono. «Abbandono» che cosa vuol dire? Che ti devi lasciar sballottare dall’immagine, anche perché tu hai questo orribile (risibile) potere di interromperla con tecniche elettroniche, di modificarla, di torcerla; puoi fare tutto: puoi torturarle, le immagini. Hai questo potere di montarle e smontarle addirittura nella grana, nei singoli punti informativi. E questo è un piccolo gioco: far finta di essere creatori. Mentre il massimo di vicinanza a un’istanza creatrice, a un’istanza di montaggio, agitandoti, facendoti agitare all’interno dell’immagine. Soprattutto in quel momento percepisci il fatto che il limite dell’immagine non è neanche l’inquadratura, e che non solo non esiste un solo senso dell’immagine, ma che puoi passare assolutamente da un qualunque punto dell’immagine a un qualunque punto di un’altra, e la cosa può sempre funzionare.
da Enrico Ghezzi, Il mezzo è l'aria, 1997
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La macchina che cattura l’eccedenza è un dispositivo video elettrico pensato sulla base del funzionamento di uno studio televisivo. Per questa macchina, la funzione di segnale sorgente delle telecamere di uno studio viene sostituita dalle postazioni di montaggio. In regia, dunque, non arriva un soggetto ripreso dagli operatori, ma l’output del lavorio di editing svolto dai montatori. La sua logica creativa è ispirata al funzionamento degli alambicchi, o, in natura, alla formazione dei cristalli. Il motivo della sua sperimentazione trova ragioni nella dissuasione dei processi autoriali singolari e mono-sguardo, nella potenza imprevista e possibile di un genio collettivo all’opera, nelle caratteristiche del gioco e della messa in forma in fantasia.
Nonostante l’arzigogolato complesso di cavi, connessioni e apparecchi descritti di seguito, gli elementi che ne possono permettere un funzionamento esemplare non sono tecnici, ma umani. La fiducia tra amici, la conoscenza del repertorio, la concentrazione su di un periodo medio-lungo, una coda dell’occhio allenata, le orecchie sgombre, il desiderio, una sensibilità abile a discernere qualcosa di concretamente grave da un sintomo della propria o altrui stanchezza, sono gli elementi richiesti.
CIRCUITO
Il dispositivo consta di otto postazioni.
- 5 di editing
- 2 di audio
- 1 di regia
POSTAZIONI DI EDITING
Ogni postazione è manovrata da un conoscitore e da una lepre.
Il primo ha maturato una sua sapienza sull’archivio, ha un immaginario costellato di rimandi dei quali conosce gli indirizzi per reperirli in miniera e così è capace di instradare la lepre. Quest’ultima è abile e lesta nell’uso dei software di editing, segue il conoscitore mettendogli davanti i suoi rimandi, lo sorprende con proposte non previste come solo chi non conosce può fare. Entrambi concorrono col loro filare alla tessitura.
Specifiche in/out
Ogni sequenza di lavoro sul software di editing sarà impostata in formato Pal 720×576.
Ogni postazione deve essere dotata di un’uscita firewire.
Ad ogni uscita firewire deve essere collegato un recorder dvcam.
Ogni sequenza deve avere impostato come output di preview la firewire.
Durante ogni sessione di montaggio, il conoscitore e la lepre devono avere cura di avviare il recorder, registrando su nastro dvcam la loro sessione di filatura. Staccarlo quando smettono e nominare il nastro con numero della postazione, giorno e orario, ogni volta che si esaurisce.
Gli out video di ogni player dvcam arrivano in regia video. Gli out audio di ogni player dvcam arrivano in regia audio.
Ogni postazione può avere un doppio monitor.
Specifiche materia
Ogni postazione ha un suo hard disk usb3 che contiene un brano parziale dell’archivio.
La struttura dei folder degli hardisk è uguale per ogni postazione e conterrà tutti i formati presenti in archivio. Il suo materiale, i suoi file, però, saranno differenti.
Il materiale che ha disposizione una postazione non è disponibile per un’altra, così da evitare, almeno in prima istanza, eventuali ripetizioni.
Ogni postazione è contestualmente collegata attraverso una porta lan rj45 1000 mega al server cubotto contenente l’intero materiale, per consultazione e/o approvvigionamento.
POSTAZIONI AUDIO
Le postazioni sono due differenti, con due scopi differenti e due manovratori differenti. C’è il narratore e il raschia cielo.
La postazione del narratore è costituita da un mixer (almeno 8 canali) che riceve 6 segnali differenti:
a) tutti gli audio dalle postazioni di montaggio
b) il segnale di ritorno dal raschia cielo
Il narratore lavora alla costruzione di un tessuto sonoro equilibrato e indipendente capace di amalgamare le diverse sorgenti che riceve in maniera del tutto autonoma. Dà prevalenza a una conversazione, a un sottofondo, ad una musica, in diretta e a piacimento con lo scopo deliberato di costruire un racconto sonoro. La durata non lo preoccupa.
Il raschia cielo costruisce scale, o nuvole, o pavimenti. Riceve anch’essa 6 canali, 5 dalle postazioni di montaggio, una dal master out del narratore. Il suo lavoro è quello del suono, dell’eco, del refrain, della goccia amplificata, del silenzio pieno.
Specifiche in/out
Entrambe le postazioni ricevono i 5 canali dalle postazioni di montaggio.
Il narratore, sdoppia i 5 segnali e li manda al mixer video (così ha preview) e al raschia cielo.
L’out del narratore entra nel raschia cielo.
L’out del raschia cielo entra nel narratore.
Un out master del narratore è anche l’audio del master della regia (vedi sotto).
Entrambi registrano in maniera indipendente su supporto digitale.
Entrambe le postazioni, o almeno una, devono essere in grado di registrare parola o strumenti live, quindi avere un microfono adatto apribile all’occorrenza.
REGIA
La regia è costituita da due mixer video per un totale di 8 canali.
Riceve i cinque segnali dalle postazioni di montaggio e l’audio relativo dalla postazione audio del narratore. Il suo lavoro è distillare o fare il cristallo.
Specifiche in/out
In: tutti i segnali in ingresso audio e video dalle postazioni di editing.
Ha due out.
Uno è su betacam SP. Nel betacam converge il segnale video che scaturisce dal mixaggio con relativo audio su due canali. Su altri due canali audio del betacam entra il narratore.
Ne viene fuori un master a 4 canali audio che contiene sia il video con audio correlato che la traccia sviluppata in contemporanea dal narratore.
Il secondo out è su di un proiettore che si occupa di «ingrandire la messa in onda».
Roma, 29 aprile 2019
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Da un intervento di EGH al Festival internazionale dell’archivio e del patrimonio, Paternò, giugno 2014
Un paio d’ore fa, sulla soglia di questo spazio, mi è stato chiesto da alcune persone quando avrei parlato e di cosa. Ho detto che in realtà non pensavo se avrei parlato, e quindi che sapevo di cosa avrei parlato nel caso, ma poi mi sono dimenticato.
Adesso, dopo tutta questa serata, mi trovo in una situazione che mi piace molto e che ho sentito una volta descrivere sinteticamente, in modo abbastanza folgorante, come “ascoltare con la coda dell’occhio”.
Tornando qua, quello che ho trovato e che trovo molto fascinosa è questa cosa, non direi capacità, da parte di chi ha dis-organizzato il Festival, di considerarci tutti, loro per primi, un pezzo di archivio.
[Il vento soffia sul microfono di Enrico, che esclama: “bello questo, è il vento!”]
Un pezzo d’archivio di cui abbiamo pochissime tessere per mettere insieme qualcosa di chiaro, di leggibile, ovvero il contrario dei database che uccidono in modi diversi o ci vendono fino alla morte in modi diversi. È qualcosa di più simile all’anarchivio e all’anarchivismo, al gioco se vogliamo, ma è un gioco spesso anche molto duro.
Quando parlo di anarchivio ho in mente il modo di ri-vedere le cose sul quale ci basiamo in ogni momento senza volercene/potercene rendere conto. Un racconto che mi ha sempre molto colpito è quello di Charcot, un maestro fondamentale per Sigmund Freud e per molti altri, che a volte nelle sue lezioni [di anatomia], praticamente fatte in diretta, confidava che il corpo-cervello che stava in quel momento analizzando con gli allievi era un corpo che lui aveva già visto molte volte, e che però non gli aveva suscitato nulla. Non aveva saputo cosa pensare, mai. In quel momento era come se gli fosse arrivata un’idea – non è proprio così impressionistico ma ci è vicino. E così, più in generale, diceva che osservare la cosa, se la cosa non esiste, osservare la cosa, dei blocchi di cose immobili che non cambiano apparentemente, questa era la cosa. Rivedendo – mi viene da dire: come se fosse un film – una due tre quattro cinque sei infinite volte una cosa che sembra sempre identica a sé stessa, lì a un certo punto trova il salto infinitesimale, e trova un senso perfino nel suo fare individuale che cerca normalmente di mettere da parte, di – in qualche modo – nascondere a sua volta…
Direi che se pensiamo al titolo della cosa che stiamo per vedere – non dico né il titolo né l’autore, perché sono nel programma – è un titolo che trovo così stupendamente e ironicamente disperato, che ci ridice di nuovo tutto sull’impossibilità di rendere davvero nostro un archivio, anche l’archivio di noi stessi, se non vedendo in qualche modo così lontano da smascherare, da ripulire da sporcare da mutarsi… E quindi mi sembra davvero di aver parlato troppo o troppo poco… Buona visione… Il faut danser e tutto quello che volete… Ciao.
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Al via la produzione de “Gli ultimi giorni dell’umanità”, 5 febbraio 2020, Terre di Campania
Regina Ada Scarico, A Napoli il montaggio del (non) film di Enrico Ghezzi. Raccolta fondi su Produzioni dal Basso, 5 Febbraio 2020, Cronache della Campania
Gli ultimi giorni dell’umanità, il (non) film di Enrico Ghezzi, montaggio a Napoli, 5 Febbraio 2020, Gazzetta di Napoli
Alberto Castellano, Ghezzi e compagnia, una macchina catturaeccedenza, 20 dicembre 2019, il manifesto
Adriano Sofri, “Gli ultimi giorni dell’umanità”, formidabile capostipite di “Blob”, 17 dicembre 2019, il Foglio
Gli ultimi giorni dell’umanità: iniziato il montaggio del (non) film di Enrico Ghezzi, 5 dicembre 2019, Taxidrivers
Il (non) film di Enrico Ghezzi, 5 dicembre 2019, Cinematografo
Giacomo Aricò, Gli Ultimi Giorni Dell’Umanità, il progetto di Enrico Ghezzi entra in montaggio, 5 dicembre 2019, CameraLook
Il (non) film di Enrico Ghezzi e “Le relazioni preziose. Il ‘700 al cinema”, 2 dicembre 2019, Hollywood Party, Rai Radio 3
Un (non) film di Enrico Ghezzi, 1 dicembre 2019, Il Recidivo
Fabio Giusti, Cose (mai) lette – Intervista a Enrico Ghezzi, 25 novembre 2019, Taxidrivers
Un (non) film di enrico ghezzi: come montare 900 ore di utopia, 5 novembre 2019, Locarno Film Festival
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Enrico Ghezzi: «Il presente come remake, questo è l’orizzonte», 30 agosto 2019, Quinlan
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#Venezia76 – On ne saurait penser à rien, una cosa di enrico ghezzi e malastradafilm, 28 agosto 2019, Sentieri selvaggi
Giornate degli Autori XVI – Enrico Ghezzi racconta “Gli ultimi giorni dell’umanità”, 27 agosto 2019, Cinema italiano
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